Quanto è importante la “messa in scena” ai fini del successo di una mostra?
Il processo progettuale di una mostra è paragonabile a quello di uno spettacolo teatrale: l’aspetto narrativo deve coesistere con la “messa in scena”. Questo equilibrio è determinante al fine di offrire un’esperienza originale, da cui il visitatore possa uscire arricchito non soltanto dal punto di vista conoscitivo, ma anche puramente esperienziale. Per esempio, in occasione della mostra “Hokusai Hiroshige Utamaro” a Palazzo Reale di Milano (22 settembre 2016 – 29 gennaio 2017), sussisteva il rischio che le circa 200 xilografie policrome, simili per formato di stampa e per coerenza stilistica, risultassero ridondanti all’interno del percorso espositivo. Mentre la curatrice Rossella Menegazzo ha elaborato un racconto caratterizzato da un linguaggio accessibile al largo pubblico, io ho progettato un allestimento che cambiava fisionomia in ogni ambiente. Come un libro composto da un incipit avvincente, da uno svolgimento incalzante e da un finale a effetto, allo stesso modo una mostra può provocare l’entusiasmo dei suoi fruitori proprio grazie all’equilibrio e alla varietà delle sue parti.
L’originalità di una mostra consegue non tanto dalla mera aggiunta di elementi didascalici o interattivi, quanto dall’efficacia della “messa in scena”. Per l’esposizione della Pala Gozzi di Tiziano (1520, olio su tavola, 312 × 215 cm) a Milano presso Palazzo Marino (5 dicembre 2017 – 6 gennaio 2018), ho collaborato con il light designer Francesco Murano al fine di creare una “macchina visiva” originale. Entrando, il visitatore scopriva il retro della pala: sulle assi di legno, rinforzate con centine costolate, diventava possibile ammirare una serie di disegni preparatori a matita e ombreggiati a pennello. Soltanto in seguito si raggiungeva il fronte della pala, illuminato con dispositivi ad altissima resa cromatica che ne risaltavano i colori originali.
Quale percorso progettuale segue per l’allestimento di un’esposizione temporanea?
In primo luogo, devo effettuare il rilievo dello spazio espositivo. Oltre alla conformazione architettonica della sede, è fondamentale conoscere la precisa collocazione di ogni elemento vincolante, dalle telecamere ai sensori di fumo. D’altra parte, occorre organizzare fin da subito il budget a propria disposizione, in modo da ridurre al minimo il rischio di effettuare modifiche in corso d’opera. In seguito, è sempre bene verificare la correttezza dei dati forniti sulle dimensioni degli oggetti e delle opere, in modo da poter effettuare una corretta trasposizione in scala. L’architetto si occupa della gestione del rapporto tra il contenitore e il contenuto: è un mediatore tra lo spazio e le opere, la narrazione elaborata dal curatore e la percezione del pubblico. D’altra parte, è altresì importante che il curatore sia aperto alla possibilità di adeguare il proprio racconto in funzione di una corretta resa spaziale. Per esempio, la mostra su Niki de Saint Phalle al Mudec di Milano (5 ottobre 2024 – 16 febbraio 2025) presentava la problematica della varietà dimensionale delle sculture da esporre. In casi simili, diventa imprescindibile un compromesso tra la narrazione e la componente estetica.
I vincoli spaziali possono costituire uno stimolo all’ideazione di nuove soluzioni creative? Se sì, può raccontarci una sua esperienza significativa?
I vincoli spaziali non rappresentano mai un mero impedimento: al contrario, costituiscono le basi di un progetto di allestimento. In occasione della recente mostra “BOLD! Declinazioni tipografiche; Munari, Depero e oltre” a Sesto San Giovanni presso la Galleria Campari (14 novembre 2024 – 30 giugno 2025), ho dovuto allestire oltre 160 materiali d’archivio all’interno di uno spazio di circa 200 m2. Le opere, di carta, presentavano una problematica di carattere non solo strutturale, ma anche scenico. L’inserimento dei documenti all’interno di cornici avrebbe risolto la questione strutturale, ma la resa scenica ne avrebbe risentito. D’altra parte, l’idea di porre le opere su tavoli orizzontali sarebbe stata appropriata, ma impraticabile a causa della mancanza di spazio. Proprio a partire da questo genere di riflessioni, basate sull’osservazione dei vincoli spaziali, nascono le soluzioni creative. Alla fine, ho ideato una serie di teche verticali, sottili e debolmente inclinate, collocando gli oggetti su un supporto di cartoncino non acido, sorretto da alcune linguette. Dal punto di vista scenico, l’allestimento e la grafica (progettata dallo studio FM di Milano) seguono l’idea di riprodurre la via commerciale di una metropoli, affollata di insegne pubblicitarie. Le strutture che ho progettato assolvono anche il compito di proteggere i documenti dalla luce proveniente dall’esterno, salvaguardando il corretto quantitativo di lux a fini conservativi. Per il progetto illuminotecnico, Francesco Murano ha applicato luci che permettono di mantenere la stessa intensità luminosa su tutta la superficie dei supporti. Attraverso un dialogo costante ed efficace, abbiamo reinventato lo spazio, rendendolo proporzionato alle dimensioni ridotte dei documenti.
Lei ha progettato numerosi allestimenti per mostre temporanee: qual è la dote che un committente cerca in un architetto?
I committenti cercano tecnici esperti, in grado di risolvere i problemi con efficacia ed entro le tempistiche richieste. Il progettista dell’allestimento deve essere abile nell’organizzazione del budget: anche con poche risorse è possibile ottenere un risultato soddisfacente. D’altra parte, anche il committente di una mostra deve saper ripartire il budget in modo proporzionato, in modo che i vari aspetti del progetto possano essere in equilibrio rispetto al budget disponibile.
Nell’ambito delle mostre temporanee ricorrono spesso inconvenienti, che devono essere individuati e risolti nel minor tempo possibile. Per esempio, quasi fino alla fine dei lavori per la mostra “Leonardo Da Vinci. 1452-1519. Il disegno del mondo” presso Palazzo Reale a Milano (15 aprile – 19 luglio 2015), non vi era certezza se sarebbero state ottenute in prestito alcune opere oppure no. In casi simili, l’architetto deve essere una sorta di “equilibrista”, che riesce a mantenere lo spazio necessario ad accogliere l’eventuale arrivo delle opere senza rovinare la resa scenica complessiva.
Lorenzo Paglioriti