Quali sono le linee guida da cui partite per comporre i programmi espositivi della Collezione?
Trattandosi di una raccolta privata, gli artisti che invitiamo a ideare progetti inediti per la Collezione sono scelti seguendo lo sguardo della famiglia Maramotti. Sicuramente un focus rilevante, anche se non esclusivo, è l’attenzione ininterrotta al linguaggio pittorico, e alla sua evoluzione. Così come è per noi interessante presentare mostre significative, in qualche modo ambiziose, in cui emerga un peculiare carattere di sperimentazione, di innovazione per la ricerca e la pratica degli artisti. Entrambe queste direttrici sono completamente coerenti con la parte più “storica” della raccolta, con ciò che Achille Maramotti aveva iniziato ad acquisire dagli anni Sessanta, in continuità con la sua profonda passione per la pittura antica e del primo Novecento.
Accanto ai progetti personali “su invito”, che sono alla base della nostra programmazione, organizziamo con regolarità esposizioni collettive tematiche con lavori del nostro ampio archivio, mostre fotografiche (in concomitanza del festival “Fotografia Europea”) in dialogo con il nostro patrimonio, e i progetti delle artiste vincitrici del Max Mara Art Prize for Women.
Qual è lo spirito e l’obiettivo del Max Mara Art Prize for Women e come si inserisce nella missione della Collezione Maramotti?
Il premio biennale Max Mara Art Prize for Women è nato nel 2005 da una collaborazione tra Max Mara, brand dedicato alle donne e al loro empowerment, e Whitechapel Gallery, prestigiosa istituzione londinese con una lunga e significativa storia nel riconoscimento del lavoro delle artiste. La Collezione Maramotti è entrata come terzo partner del Premio nel momento in cui ha aperto al pubblico nel 2007.
Le forti motivazioni alla base dell’istituzione del Premio sono abbastanza semplici da individuare: la volontà di sostenere donne artiste (e, dal 2019, artiste che si identificano nel genere femminile) emergenti, in un momento cruciale della loro carriera, offrendo loro tempo, spazio e mezzi per poter sviluppare la propria arte, dando loro la giusta visibilità. Questioni di cui fortunatamente, oggi, c’è più consapevolezza – anche se a livello sostanziale questa non ha generato effetti davvero paritari, né duraturi – ma che vent’anni fa sono state piuttosto pioneristiche.
La direttrice di Whitechapel Gallery nomina e presiede la giuria, che cambia a ogni edizione ed è composta da donne attive sulla scena artistica britannica. La giuria seleziona cinque finaliste a cui è chiesto di presentare una proposta di progetto da sviluppare durante una residenza di sei mesi in Italia, organizzata su misura dalla Collezione Maramotti. A partire da questo periodo esplorativo immersivo nel nostro paese, ricchissimo di storia, cultura, paesaggi, eccellenze tecniche e artigiane, l’artista vincitrice realizza una mostra, che è presentata a Londra presso Whitechapel Gallery e a Reggio Emilia alla Collezione Maramotti, che poi ne acquisisce le opere. Spesso questa seconda tappa italiana, a causa della diversità degli spazi espositivi (molto alto, senza pareti ma con colonne centrali e senza luce naturale alla Whitechapel; decisamente più basso, con luce naturale e senza elementi architettonici centrali in Collezione), si è configurata quasi come una mostra diversa, pur includendo le stesse opere.
Credo che le caratteristiche del Premio e la lunga residenza che ne costituisce il cuore pulsante lo rendano un unicum. La Collezione tutta, e in particolare Giulia Cirlini che ne è project manager, sono a completo supporto dell’artista, inizialmente per mettere a punto insieme a lei il programma di residenza: quali luoghi toccare, che tipo di esperienze o visite pianificare, individuare i soggetti, persone fisiche o istituzioni, che siano i tutor dell’artista in loco. Poi durante i mesi di permanenza in Italia, anche per questioni molto pratiche, dagli spostamenti in treno agli asili nido, per chi ad esempio è arrivata con la famiglia; e anche in seguito, soprattutto quando le artiste hanno deciso di produrre le nuove opere nel nostro paese. A volte i legami sono proseguiti ben oltre. Emma Talbot, vincitrice della ottava edizione del Premio, si è stabilita in permanenza a Reggio Emilia, dove ha mantenuto casa e studio dalla sua residenza del 2021. La maggior parte delle vincitrici parteciperanno all’inaugurazione di Time for Women!, mostra celebrativa del ventennale del Max Mara Art Prize che aprirà a Palazzo Strozzi ad aprile. E questo credo sia un segno del senso di comunità che il Premio ha generato nel corso degli anni, e delle tracce profonde che ha lasciato nella vita di queste artiste. E nella loro carriera: Helen Cammock e Laure Prouvost hanno vinto il Turner Prize, Prouvost ha rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia, Talbot e Salmon sono state incluse nelle mostre di direttori della Biennale di Venezia, e tutte loro hanno ottenuto importanti riconoscimenti dopo aver vinto il Max Mara Art Prize.








Parliamo delle molte collaborazioni “stabili” che la Collezione Maramotti ha avviato, può darci un quadro e un’idea delle sinergie che hanno generato?
Le collaborazioni istituzionali, sia sul territorio che all’estero, sono frutto di una vocazione condivisa al sostegno di artisti emergenti, alla sperimentazione, alla proficua contaminazione tra linguaggi diversi. Oltre alla già menzionata Whitechapel Gallery, abbiamo rafforzato relazioni di lungo corso con soggetti culturali che hanno base a Reggio Emilia. Siamo partner del festival “Fotografia Europea”, in occasione del quale inauguriamo mostre legate al linguaggio fotografico, o al tema delle varie edizioni. Con la Fondazione I Teatri abbiamo invitato coreografi di fama internazionale a ideare performance site specific di danza. Abbiamo iniziato con Trisha Brown nel 2009, e la più recente è stata Anne Teresa De Keersmaeker lo scorso novembre. Con il Centro Coreografico Nazionale Aterballetto abbiamo prodotto video di contaminazione tra coreutica e arti visive. Tra il 2021 e il 2024 con Doppiozero e il Teatro delle Albe sono stati realizzati una serie di podcast (ARTPOD-ascolti d’arte) su opere della nostra collezione permanente, raccontate dagli autori della rivista online (non solo critici d’arte, ma anche filosofi, scrittori, attori…) e interpretate dagli attori delle Albe.
Infine, ovviamente la Collezione Maramotti richiama e immediatamente rimanda alla bellezza, al design, allo stile e alla qualità delle realizzazioni sartoriali di un grande gruppo come Max Mara. Esistono occasioni di confronto e collaborazione o di reciproca visibilità tra la Collezione e Max Mara?
Il soggetto da cui sia la Collezione che Max Mara emanano è il medesimo, ma la Collezione ha una sua opportuna completa autonomia rispetto all’azienda: è una raccolta privata, con logiche di scelta e intenzioni personali di una famiglia. Il brand, a sua volta, ha sempre collaborato con artisti contemporanei per campagne fotografiche, ad esempio ingaggiando Sarah Moon all’inizio degli anni Settanta, o per progetti speciali, come la rielaborazione dell’iconico cappotto 101801.
Alcune delle opere della raccolta di Achille Maramotti, quando qui c’era ancora l’azienda, erano esposte negli spazi comuni, per stimolare un proficuo contatto quotidiano con l’arte per chi lavorava in un’impresa creativa. Tanti dipendenti le ricordano ancora vividamente.
Oltre al Max Mara Art Prize, in cui la Collezione e Max Mara sono partner dal 2007, negli anni recenti si sono create altre occasioni di collaborazione. Nel 2022 è stata inaugurata un’opera permanente site specific di Eva Jospin sulla terrazza del flagship store di corso Vittorio Emanuele a Milano, che affaccia su piazza del Liberty. Si tratta di una serra in vetro e metallo, memore dei giardini d’inverno della fine del XIX secolo, che contiene un grande paesaggio in cartone, un affascinante rilievo minerale e vegetale arricchito da un’essenza olfattiva creata dall’artista insieme a un naso parigino. L’opera è visibile sia dall’interno dello store che dalla piazza, e la sua percezione muta costantemente anche a seconda delle condizioni luminose e atmosferiche esterne. Per questo progetto abbiamo collaborato con Max Mara all’organizzazione di un contest di idee (in pieno periodo pandemico) in cui tre artisti sono stati invitati a presentare una proposta per la terrazza, un’opera che, pur concepita per essere duratura, possedesse delle qualità legate all’idea di impermanenza, e che, inserita in quel contesto urbano, stimolasse una diversa visione – fisica, naturale, poetica – dello spazio. La proposta di Jospin si è rivelata perfetta, e tra il 2021 e il 2022 è stata portata a compimento, in un processo di costante cooperazione tra l’artista, Max Mara, la Soprintendenza e il Comune di Milano, le imprese, i consulenti e la Collezione, che ovviamente si è presa cura principalmente della parte artistica.